Quest’anno le classi del triennio hanno svolto il viaggio studio, che solitamente si compie nel mese di novembre, in Irlanda; negli anni precedenti si è sempre andati in Inghilterra però, alla luce delle complicazioni burocratiche create dalla Brexit, si è optato per una scelta differente e per un paese ancora membro dell'UE, per raggiungere il quale non c’è bisogno del passaporto.
I partecipanti sono stati divisi per classi e ogni gruppo classe ha svolto il viaggio, della durata di una settimana, in date diverse; tutti hanno però avuro come meta la città di Bray che si trova nella contea di Wicklow, circa venti chilometri a sud di Dublino, e gli studenti sono stati ospitati in famiglia. Il programma di questo viaggio-studio è stato più o meno lo stesso seguito negli anni precedenti, al mattino si seguono alcune lezioni in una scuola, mentre nel pomeriggio vi sono varie attività, alcune mirate alla comunicazione per migliorare il livello d’inglese degli studenti e altre con lo scopo di far conoscere la città in cui si trova, con i luoghi tipici e più importanti. Qui parlerò dell’esperienza che ho vissuto io personalmente e cercherò di paragonarla anche al viaggio studio che ho svolto in Inghilterra l’anno scorso. Io e le mie compagne ci siamo trovate benissimo con la famiglia in entrambi i casi, siamo state ospitate da persone gentili e comprensive che hanno cercato di farci vivere al meglio quest’esperienza e non abbiamo mai avuto nulla da dire, anche se purtroppo ho sentito lamentele da varie persone riguardo alle proprie famiglie.
Le lezioni al mattino sono state interessanti e molto utili, sopratutto perché non sono state le “solite” che svolgiamo normalmente, ma interattive, volte a farci comunicare e a farci anche divertire insieme e penso che questa cosa ci abbia spinti a seguirle con più attenzione e ad impegnarci di più. Le attività nel pomeriggio, come già detto, sono state varie: abbiamo svolto due cacce al tesoro, una rispettivamente a Bray e una a Dublino, che avevano lo scopo di farci vedere e conoscere bene le città.
Personalmente è un'attività che non ho apprezzato molto ma riconosco che può essere effettivamente utile, soprattutto se non si sa nulla del luogo che si deve visitare, poi una “camminata” che ci ha portati alla Bray head cross, il punto più alto da cui è possibile vedere tutta la città;una salita abbastanza faticosa ma ne vale decisamente la pena, perchè da lassù si domina l'intera città di Bray ed è stato bellissimo vedere tutto dall’alto.
Ho apprezzato invece molto l’attività dell’ultimo pomeriggio, che era sempre da svolgere in gruppo, in cui ci è stato chiesto di scattare diverse foto per tutta la città, ed è stato molto divertente perché spesso si trattava di foto “buffe”, ci siamo divertiti, e ovviamente è stato bello avere una giornata libera a Dublino, grazie a ciò io e i miei amici abbiamo avuto modo di vedere la città con calma e di dedicarci alle cose che ci interessavano di più. Abbiamo anche visitato l’Epic Museum, ovvero il museo dell’emigrazione irlandese, sempre a Dublino, e di ci io ho personalmente apprezzato il fatto che fosse una visita “libera”, senza guida, ho avuto modo di concentrarmi sullo cose che erano di più di mio interesse.
Sia io che le mie amiche abbiamo apprezzato molto Bray, soprattutto il fatto che si trova sul mare, e pensiamo che la scelta di fare il viaggio studio qui sia stata una fantastica scelta. Per ciò che riguarda le attività, penso che quelle svolte in Inghilterra siano state di gran lunga più belle e invece le lezioni sono state migliori quelle in Irlanda, quindi non penso che sarei in grado di esprimere una preferenza a riguardo.
C’è una cosa che per vorrei “criticare”, ovvero il costo: è giusto che questa esperienza contempli una certa “cifra” da pagare ma penso che da un lato si debba trovare un modo per ridurla, per poter consentire anche a quelle persone che non hanno una grande possibilità economica di poter vivere questa esperienza, che io consiglio veramente a tutti.
Alessia Puscasu, 4^BL
Una tra le molteplici cose che ho notato l’anno scorso, quandoho partecipato agli open day organizzati dalla mia scuola media (la Giulietti di Casteggio) e dal liceo scientifico di Broni, visitando le aule di quest’ultimo, è stata la collezione dell’aula di scienze naturali. In essa sono conservati reperti animali di ogni genere. La cosa che mi ha colpito di più è stata la collezione di minerali e fossili perché, durante il mio tempo libero, mi piace collezionarli. Per questo motivo ho deciso di aprire questa nuova rubrica, dove ogni mese descriverò le caratteristiche, la formazione e anche le curiosità di alcuni minerali e fossili. Ma partiamo dall’inizio: “Che cosa sono esattamente i minerali e i fossili”? I minerali non sono nient’altro che dei solidi che hanno una formula chimica e un abito cristallino definiti e che si formano generalmente da processi inorganici. Ciò significa che conosciamo la loro formula chimica e sappiamo che molto spesso si formano grazie a processi chimici in cui non intervengono organismi viventi. I minerali hanno diverse proprietà, tra le quali una delle più importanti è la durezza. Essa serve a capire se, sfregando un minerale contro una certa superficie o un determinato oggetto, questo si scalfisce o rimane intatto. La durezza si misura utilizzando la scala di Mohs, inventata nel XIX secolo dal mineralogista Friedrich Mohs, che va da un valore minimo 1 a un valore massimo 10.
Per quanto riguarda i fossili, essi sono le ossa o le orme di un animale, oppure anche le foglie o i frutti di una pianta risalenti a diversi milioni di anni fa. Le impronte fossilizzate si formano quando un animale cammina su di una superficie molle, come il fango, che si solidifica prima di essere ricoperta da altri strati di materiale. Invece, nel caso delle ossa fossili, il processo di fossilizzazione ha inizio quando il corpo di un animale morto viene ricoperto dai sedimenti. A questo punto, le parti molli si decompongono e rimangono solo le ossa (in alcuni casi queste vengono rimpiazzate da minerali), che, dopo un lunghissimo processo, si trasformeranno in fossili. Infine, i fossili vegetali si formano in maniera analoga a quella delle ossa fossilizzate, cioè quando le foglie o i frutti di una pianta rimangono intrappolati nei sedimenti senza decomporsi. I minerali si dividono in diverse categorie:
- silicati;
- carbonati;
- ossidi;
- elementi nativi;
- solfuri;
- alogenuri;
- fosfati.
I fossili, invece, possono essere animali o vegetali. Nei prossimi articoli andrò a descrivere nel dettaglio alcune categorie di minerali e fossili.
Federico Milani, 1^AL
L’italianità e i prodotti italiani sono da sempre molto apprezzati all’estero e, per quanto riguarda il settore alimentare, è risaputo quanto il valore della cucina italiana sia riconosciuto in tutto il mondo. Il cibo italiano, insieme a quello francese e spagnolo, risulta essere il più amato. Tuttavia, per quanto apprezzino la cucina italiana, i consumatori stranieri faticano a riconoscere la differenza tra un cibo prodotto in Italia e un cibo dal nome italiano prodotto in aziende straniere. Nasce così l’“Italian Sounding”, quel processo di diffusione di prodotti nomi, loghi, colori o slogan riconducibili all’Italia, ma che di fatto non hanno nulla a che vedere con l’autenticità dei prodotti “Made in Italy”. Questo fenomeno, noto anche come contraffazione imitativa, è diffuso maggiormente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in America latina nei Paesi dell’Est ma anche in alcune nazioni della UE; esso riguarda diversi ambiti dell’industria: dal fashion design, al settore farmaceutico, a tutto il mercato agroalimentare. Negli ultimi dieci anni, il processo dell’Italian Sounding ha subito un aumento del 70%, specialmente per quanto riguarda, appunto, il “fake food”: la pandemia ha incrementato lo sviluppo di esso, infatti l’impossibilità di mangiare al ristorante, di viaggiare e di condurre una vita sociale fuori casa ha portato le persone a riscoprire il piacere di cucinare e di scegliere alimenti di valore (ad esempio Parmigiano, Grana, prosciutto di San Daniele, vini e salumi…). Mai sentito parlare di Parmesan? E di salsa Pomarola? Per non parlare della Zottarella, imitazione tedesca della nostra mozzarella: si tratta di Italian Sounding Food. Questo fenomeno sta portando danni economici significativi, che sottraggono quote di mercato alle aziende italiane, e alimentano la crescita di un’economia parallela che, oltretutto, inganna i consumatori.
Coldiretti, (Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti, associazione che svolge attività di assistenza e di tutela agli imprenditori agricoli soprattutto nei settori sociale, tecnico-economico, sindacale, tributario, del lavoro) ha stilato una lista degli alimenti italiani più imitati al mondo: tra i cibi made in Italy più copiati troviamo formaggi, salumi, olio extra vergine di oliva, prodotti ortofrutticoli freschi come il pomodoro San Marzano, vini. Cinque nostre eccellenze sono gli alimenti italiani più copiati nel mondo: Parmigiano Reggiano, Mozzarella di Bufala, Prosecco, Grana Padano, Prosciutto San Daniele e Parma.
L’Italia sta combattendo questo fenomeno cercando di tutelare il proprio patrimonio culinario e promuovendo il riconoscimento della cucina italiana come patrimonio dell’Unesco. Proprio Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, durante il Summer Fancy Food 2023 (il più grande evento alimentare degli Stati Uniti) ha sottolineato: “La mancanza di chiarezza sulle ricette Made in Italy offre terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani, per questo è importante fare chiarezza sulla cucina italiana nel mondo con il riconoscimento come patrimonio Unesco.” Oltre agli sforzi delle autorità, è importante però fare in modo che i consumatori siano informati e consapevoli della tendenza all'imitazione nel settore agroalimentare. Scegliere prodotti con certificazioni di origine e denominazioni di protezione, informarsi sulle caratteristiche e le qualità dei prodotti italiani sono solo alcune pratiche fondamentali per contribuire a combattere l'Italian Sounding e preservare l'autenticità della cucina italiana nel mondo.
Matilde Pochintesta, 5^AL
L’intelligenza artificiale é un tema su cui si discute in ambito scientifico già dalla metà del secolo scorso, a partire dai racconti di fantascienza di Isaac Asimov per poi arrivare ad Alan Turing, il padre dell’informatica moderna, che per primo si é chiesto se, come e cosa significhi veramente per una macchina pensare, essere definita intelligente. Una macchina può essere definita così quando dimostra di poter comprendere, attraverso percorsi opportunamente studiati, il linguaggio umano / naturale.
La differenza sostanziale tra l'impiego dell’intelligenza artificiale e l’informatica classica sta nel fatto che l’informatico scrive in un linguaggio preciso e rigoroso una serie di codici per risolvere un determinato problema, mentre l’intelligenza artificiale permette di risolvere problemi, scrivere testi e rispondere a domande precise senza essere stata programmata apposta per farlo. Le macchine IA non sono state programmate per risolvere un problema ma hanno imparato a risolverlo, sono state programmate per imparare. Per esempio Chat GBT é un grosso modello di linguaggio che ha imparato a comunicare quasi come un essere umano. Ogni frase non é stata decisa a priori ma in base al contesto, al modo in cui é stata posta e alle domande che vengono fatte e in che modo, quindi a quesito opportunamente posto la macchina risponde in maniera coerente. Sembra quasi capire la domanda che gli é stata posta. Quindi alla fine é questa la differenza sostanziale tra l’intelligenza artificiale e l’informatica classica: nella seconda abbiamo un pc che, per esempio, ripete / esegue i comandi, invece l’intelligenza artificiale é qualcosa che è in grado di formulare un pensiero da sé, quasi come un umano.
E' una cosa che spaventa ma solo perché, come tutte le cose nuove, deve essere conosciuta e per poterla conoscere bene dobbiamo rivolgerci a chi ne sa più di noi, Così abbiamo chiesto l'aiuto del Professor Andrea Pozzi, ex studente del nostro liceo ed oggi docente in corsi specializzati sul deep learning all’Università Cattolica, nonché la fonte delle notizie sulla IA che vi ho riportato.
Andrea Pozzi, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore
Il prof Pozzi ci invita a non temere l'IA ma a farne un buon uso, dal momento che essa, attraverso una serie di dati iniziali input, può imparare dai propri errori o anche dagli esempi. Quindi in una situazione completamente nuova che può assomigliare a qualcosa che ha già visto, la macchina riesce a dare una risposta in base alle nozioni acquisite precedentemente sulla sua esperienza. Alla fine una macchina impara generalizzando tutta una serie di eventi.
Come tutte le più grandi tecnologie che hanno avuto un grande impatto sul mondo, si pensa che anche l’intelligenza artificiale sarà qualcosa di straordinario in grado di rivoluzionare stavolta i lavori specializzati, come per esempio il medico di base.
Non sarà di certo un processo totalmente indolore e richiederà notevole spirito di adattamento da parte di tutti, ma se gli esseri umani non lo possedessero, si sarebbero già estinti da un pezzo.
Nicholas Halangescu, 5^ASA
Voluto nel 2001 dalla duchessa di Northumberland Jane Percy, l’Alnwick garden, adiacente all’omonimo castello, è un giardino famoso per essere non convenzionale e unico nel suo genere, caratteristiche che gli hanno anche permesso di vincere vari premi. Il castello di Alnwick è anche conosciuto per essere stato usato come ambientazione per la scuola di Hogwarts nei film di Harry Potter.
Una parte del giardino presenta un carattere più classico e semplice rispetto a molte altre zone del parco: il giardino delle rose. Nel periodo della fioritura, tra la fine del mese di giugno e l’inizio di luglio, il giardino si tinge di bellissimi colori sgargianti; questo vanta di più di 3000 rose che spaziano dalle arbustive alle rampicanti. In questo giardino si può anche trovare un tipo particolare di rosa: la rosa Alnwick. Quest’ultima è stata ibridata (creata sperimentalmente e non trovata in natura) appositamente da David Austin, personaggio di grandissima fama nel mondo del giardinaggio, e successivamente presentata al Chelsea Flower Show del 2001, anno stesso della creazione del giardino. La rosa presenta una delicata fioritura a coppa con numerosi petali di colore rosa pastello e ha un odore tipico delle rose antiche, con un tono di lampone.
L’Alnwick garden possiede la collezione più ampia di ciliegi da fiore Taihaku del mondo, composta da 329 alberi che fioriscono nel periodo di Aprile/Maggio e rimangono in fiore per circa due settimane. I ciliegi Taihaku hanno un interessante storia alle spalle: nel 1923 il giardiniere Sir Collingwood Ingram, ormai divenuto famoso per i suoi alberi di ciliegio, venne invitato dalla Sakurakai (società giapponese dei ciliegi in fiore, detti “Sakura” in giapponese). In questo viaggio, venne mostrato a Sir Ingram un dipinto del XVIII secolo di un bellissimo tipo di fiore di ciliegio, ritenuto ormai estinto. Sir Ingram però si accorse che era lo stesso ciliegio che aveva visto in un giardino del Sussex in terribili condizioni. Allora, Sir Ingram decise di prendere delle talee della pianta e riuscì con successo a reintrodurre la pianta in Giappone nel ’32. Il nome Taihaku significa “il grande bianco”, per le sue ampie fioriture di colore rosa chiaro, simile alla neve.
Nel parco si può anche trovare un piccolo giardino recintato e chiuso da cancelli di ferro, aperti solo durante visite guidate, con all’interno più di 100 esemplari di piante, alcune delle quali che possiamo trovare facilmente nel nostro giardino, altre esotiche, che hanno un unico dettaglio in comune: sono tutte velenose. Nel giardino dei veleni, come è scritto sul sito web dell’Alnwick garden, è severamente vietato toccare le piante, sul cancello c’è infatti un avvertimento che attrae e inquieta moltissimi turisti: “these plants can kill” (queste piante possono uccidere). In realtà la maggior parte delle piante presenti nel giardino non sono davvero così pericolose da uccidere al tocco, come ad esempio il papavero da oppio che contiene morfina, papaverina e codeina, usate a scopo terapeutico ma che possono portare alla morte con dosi troppo abbondanti, anche se i suoi semi vengono tostati e usati come spezie su pane, torte e dolci. Un altro esempio può essere la digitale, una pianta decorativa che cresce in natura, e che viene utilizzata nella terapia per le insufficienze cardiache solo dietro prescrizione medica, perché dosi troppo forti possono far cessare totalmente il battito cardiaco grazie a un componente velenoso, la digitossina, che si forma con l’essiccazione delle sue foglie tramite processi enzimatici. Un altro esempio di pianta nota nel giardino è l’atropa belladonna, comunemente chiamata belladonna, che prende il nome da Atropo, la moira appartenente alla mitologia greca che tagliava il filo della vita, a ricordare la pericolosità dell’ingestione delle sue bacche, che possono portare alla morte. La belladonna veniva usata come cosmetico dalle donne veneziane per far dilatare le loro pupille e renderle quindi più belle ed è ancora oggi utilizzata per l’analisi oculistica della pupilla come midriatico e cicloplegico. Secondo un'altra interpretazione, deriva dal termine francese belle-femme, usato per appellare le streghe nel medioevo che utilizzavano la pianta per fare unguenti. Un'altra delle piante velenose più famose presenti nel giardino è la cicuta, interamente velenosa ma con una concentrazione di tossicità più alta nei frutti ancora non maturi, la cui ingestione porta a paralisi, asfissia, arresto cardiaco e delirio. Per l’estrema tossicità della pianta, è stata utilizzata per molti anni nell’antica Grecia nelle condanne a morte ed è famosa soprattutto per essere il veleno con cui il filosofo Socrate si è dato la morte dopo la sua condanna. Il giardino dei veleni dell’Alnwick garden non è quindi soltanto un’attrazione pericolosa ma anche un luogo interessante dove poter imparare a riconoscere alcune delle piante che posso portare alla morte con dosi abbondanti o avere un impiego nella cura di numerose patologie perché, come diceva Paracelso, è la dose a fare il veleno.
Vittoria Meghella, 2^AL
Per Jannik Sinner la vittoria con la nazionale nella Coppa Davis è stata solo la proverbiale “ciliegina sulla torta” di una stagione iniziata e soprattutto conclusa ad altissimi livelli. L’altoatesino sta riscrivendo le pagine del tennis italiano e il 2023 è stato l’anno della sua consacrazione. Nel corso di questa stagione infatti, iniziata da n. 15 del mondo, Jannik ha conquistato 4 tornei ATP, tra cui il Canadian Open di Toronto, (primo Masters 1000 della carriera); ha raggiunto la finale delle ATP Finals (impresa mai riuscita prima a un tennista italiano) e ha trascinato appunto la nazionale italiana, 47 anni dopo la prima volta, alla vittoria della Coppa Davis. Nel ranking mondiale Sinner è ora quarto: solo Adriano Panatta, tra i tennisti italiani, aveva raggiunto questo risultato, ma mai nessuno aveva concluso la stagione da n. 4 del mondo.
Sono in realtà ormai anni che si dice che questo ragazzo classe 2001 ha un qualcosa in più, un talento cristallino riservato solo a pochi. A causa degli infortuni che lo hanno tormentato, però, Jannik ha faticato a trovare quella continuità necessaria per fare il salto di qualità tra i grandissimi, per stare nella top 10 costantemente e giocarsela alla pari con tutti. Era però solo questione di tempo e adesso quel momento è arrivato, il salto di qualità è stato fatto. È già iconica la vittoria in semifinale di Coppa Davis contro il grandissimo Novak Djokovic, da lui battuto due volte su tre nell'arco di dodici giorni. Con 3 match point consecutivi a favore per il serbo, Jannik, non solo è riuscito a salvarli tutti, ma nel gioco successivo ha anche rubato il turno di battuta a Novak, indirizzando la partita a suo favore. Tutto questo pochi giorni dopo le ATP Finals, dove i due si erano già incontrati due volte: la prima, nel girone, vinta anche in questo caso da Jannik; l’altra, in finale, vinta invece dal serbo. Si è quindi creata una sorta di rivalità tra i due, che è anche generazionale considerando i 14 anni di vita che separano i due. Ma la rivalità si è creata anche con il russo Medvedev, con il giovane spagnolo Alcaraz e con tantissimi altri che, nel corso del 2023 in particolare, Jannik ha avuto occasione più volte di incontrare nelle fasi finali dei tornei. I numeri parlano da soli e forse questo è il più significativo: prima di quest’anno Sinner aveva vinto nove volte contro tennisti nei primi 10 del ranking; solo nel 2023, invece, sono state 13 le vittorie. Tra l’altro tutte queste 13 vittorie sono arrivate sul cemento, che si conferma essere la superficie più adatta al suo stile di gioco, caratterizzato da colpi molto potenti e veloci da fondo campo.
Quindi le aspettative per il 2024 sono alte. L’obiettivo deve essere quello di fare ancora meglio di quest’anno, andando in fondo a tutti gli Slam e riconfermandosi alle Finals di Torino di fine stagione. Lui è solo la punta di diamante di un movimento, quello tennistico italiano, in grande crescita, di cui, non ce lo dimentichiamo, fa parte anche Matteo Berrettini.
Simone Vercesi, 5^ASA
La voce di George Benson e le sue dita sulle corde della chitarra da decenni incantano i palcoscenici di tutto il mondo. Quello di Benson è un “sound” molto particolare, un misto di jazz classico e moderno, blues, soul, funk & fusion, che è possibile ascoltare in oltre 20 album di inediti, in un’infinità di raccolte, di progetti e di collaborazioni prestigiose (Miles Davis, Herbie Hancock, Al Jarreau e Quincy Jones, su tutti).
Il “sound” unico, inconfondibile, irripetibile di Benson e il suo repertorio di hit internazionali che hanno fatto la storia del jazz, dell’r&b e del pop, tra cui “Give Me the Night”, “On Broadway”, “Turn Your Love Around”, “Nothing's Gonna Change My Love For You” fanno sì che l’artista venga riconosciuto come uno dei più “grandi” della musica internazionale, immediatemente riconoscibile dal suo modo inconfondibile di suonare la chitarra.
Nato nel 1943, cresciuto nel Hill District di Pittsburgh (Pennsylvania) e ispirato da due leggendari chitarristi come Wes Montgomery e Charlie Christian, Benson comincia la propria carriera musicale suonando come chitarrista nella formazione jazz dell'organista Jack McDuff, con il quale collabora per svariati anni. A soli 21 anni, Benson incide il suo primo album, “The New Boss Guitar”, ma è con il suo lavoro successivo, “It's Uptown with the George Benson Quartet”, che viene alla luce il talento del musicista, specie nella costruzione di linee melodiche ricche di swing e bebop.
Benson prosegue poi il suo cammino artistico con “The George Benson Cookbook”, in collaborazione con Lonnie Smith e Ronnie Cuber. Negli anni successivi, Benson collabora con vari artisti come Miles Davis (nell’album “Miles in the Sky”, nel quale George accompagna con la chitarra elettrica il brano “Paraphernalia”), Herbie Hancock (pianista) e Jimmy Smith (organista). La pubblicazione dell’album “Giblet Gravy” coincide con il contratto con la casa discografica Verve Records (1968-1969). Negli anni successivi Benson cambia più etichette, passando prima alla A&M (1969-1970) e poi alla CTI di Creed Taylor (1970-1975).
Grazie ad un nuovo contratto con la Warner Bros e la produzione di Tommy LiPuma, nel 1976 arriva la svolta con l’album “Breezin”, che ebbe un tale successo da far guadagnare a George Benson un Grammy Award.
Ottenne un grande successo anche l'uscita del doppio album “Livin' Inside Your Love” nel 1979. Durante questo periodo Benson registra anche la canzone "The Greatest Love of All" per il film “The Greatest” con Muhammad Ali. La canzone non viene subito apprezzata, ma poi, cantata da Whitney Houston, raggiunge la vetta delle classifiche mondiali. Sempre nel 1979, Benson scrive la famosa canzone "On Broadway" per il film di Bob Fosse “All That Jazz” (vincitore di quattro Academy Awards e della Palma d'Oro al Festival di Cannes), canzone inclusa nella colonna sonora del suddetto film.
Pur essendo ancora sulla stessa etichetta discografica, quando nel 1980 esce un nuovo album, “Give Me the Night”, la produzione cambia ed è affidata a Quincy Jones. L'album, sebbene più orientato al pop e con una sfumatura quasi disco nella traccia del titolo, ha un debito anche con altri noti artisti jazz.
Fino alla metà degli anni '80, la carriera di George Benson prosegue con un successo dietro l’altro, attraverso album quali “In Your Eyes” e “20/20”; tre brani di questo periodo restano nelle prime posizioni in molte hit parade internazionali e successivamente i lavori discografici di Benson ricalcano le sonorità della musica di grande diffusione radiofonica del momento.
Nel 1987, sempre con la produzione di Tommy LiPuma, viene pubblicato l’album “Collaboration” nel quale Benson (alla chitarra elettrica) e Earl Klugh (a quella classica) suonano in una fusione sonora. Insieme alla Count Basie Orchestra, sulla base della promessa fatta al suo fondatore Count Basie di rendere giustizia alla sua musica, nel 1990 esce un album che ne ricalca lo stile ed in cui Benson mette il suo sigillo componendo in dedica la traccia “Basie's Bag”. Con la nomina di Tommy LiPuma alla presidenza della Verve Records, nella metà degli anni novanta, George Benson, dopo anni trascorsi alla Warner Bros. ,cambia etichetta passando alla casa discografica GRP/Verve, con la quale vengono pubblicati album del calibro di “Absolute Benson”, in cui è evidente l'intenzione di recuperare lo stile dei suoi vecchi tempi.
Nel 2004 esce l’album “Irreplaceable”, nel quale Benson cerca di farsi apprezzare anche dal pubblico giovanile (un brano si intitola “Cell Phone”), pur rimanendo nei confini del suo stile chitarristico e compositivo.
La penultima produzione discografica esce nell'ottobre del 2006, si intitola “Givin’ It Up” ed è condivisa con il cantante Al Jarreau: è un album ancora una volta registrato con l'apporto di musicisti ed ospiti importanti, in cui i due duettano magistralmente scambiandosi continui omaggi e consacrandosi come grandi mostri sacri della scena musicale mondiale.
Nell’estate 2009 George Benson, durante il suo tour mondiale “An Unforgettable Tribute to Nat King Cole”, ha reso omaggio al famoso cantante Nat King Cole, interpretando brani dell’artista, e avvalendosi della collaborazione di orchestre locali affermate.
Nell'ottobre del 2009 Benson ha finito di registrare un nuovo album “Songs and Stories” con la produzione di Marcus Miller e John Burk come direttore creativo. A questo pregevole lavoro hanno partecipato musicisti di spicco quali David Paich e Steve Lukather.
Benson è un chitarrista completo e soprattutto un ottimo performer che sa offrire al pubblico il meglio della prestazione rendendo lo show molto interattivo. Da ascoltare, specie da parte dei giovani che non lo conoscono, credo, poi così bene.
Pietro Ruggeri, 4^BL
Venerdì 1 e sabato 2 dicembre si è tenuto lo spettacolo realizzato dal prof. Stagnitto, insegnante di fisica, chiamato "Fisicamente 5.0". Questa è stata la quinta edizione dello spettacolo, che viene riproposto al liceo da ormai qualche anno.
Alla realizzazione di questo spettacolo hanno partecipato, come di consueto, alcuni studenti del liceo, che hanno aiutato nella realizzazione degli esperimenti e nella loro messa in scena durante le due serate, che si sono prestati come presentatori degli esperimenti stessi, e anche alcuni professori, che hanno collaborato a presentare, allestire e realizzare alcuni degli esperimenti o che sono stati arruolati come membri del coro, che comprendeva anche alcune studentesse.
Nel corso della serata sono stati eseguiti numerosi esperimenti, utilizzati per spiegare diversi fenomeni fisici. L'esperimento con cui si è aperto lo spettacolo consisteva nel ricreare quello realizzato al MIT (Massachusetts Institute of Techology) di Boston, chiamato "La scimmia e il cacciatore", ed è stato utilizzato per dimostrare il principio di indipendenza dei moti, scoperto da Galileo. Gli altri esperimenti hanno poi riguardato diversi argomenti come la gravità, le onde, l'elettricità e l'ottica.
Lo spettacolo ha alternato momenti più scherzosi a momenti più seri; ha compreso, oltre alle parti interamente dedicate alla fisica, anche un discorso pronunciato dal prof. Corti, insegnante di lettere e latino, dedicato alla relazione tra scienza e poesia, in cui sono stati letti vari estratti di autori in cui esse venivano commentate e discusse.
Inoltre sono stati invitati alcuni ospiti d'eccezione, quasi tutti ex allievi del liceo che, da soli oppure come rappresentanti di un centro di ricerca, sono intervenuti per realizzare esperimenti, commentare e spiegare alcuni fenomeni. Abbiamo quindi avuto il piacere di ospitare alcuni ingegneri dell'EUCENTRE di Pavia, un centro di ricerca europeo che si occupa di ingegneria sismica che, grazie al dottor Emanuele Brunesi e all'ingegnere Giulia Fagà, ci ha permesso di assistere ad un esperimento in diretta con il quale ci sono stati mostrati gli effetti di un terremoto su un edificio e le soluzioni possibili per prevenire i danni alle strutture tramite l'isolamento sismico; abbiamo poi avuto con noi il dottor Luca Zatti, ex allievo del liceo laureato in fisica, il quale ci ha spiegato, con l'aiuto di un avveniristico computer comandato a schiocco di dita, se così si può dire, la composizione dei colori primari e secondari.
Adesso sappiamo che, quando ci verrà chiesto, quali sono i colori primari, dovremo sempre rispondere: “Dipende!”
Aurora Dalipi, 4^AL
Il Narrenturm, in tedesco manicomio, Vienna, costruito nel 1784, fu probabilmente il primo edificio al mondo appositamente progettato come "manicomio".
Nell'Ottocento, la percezione delle malattie mentali era spesso caratterizzata da superstizioni, miti e pregiudizi. Le condizioni dei pazienti psichiatrici venivano spesso associate a influenze demoniache, possessioni o considerate manifestazioni di debolezza morale. Di conseguenza, il trattamento delle malattie mentali era più influenzato dalle credenze culturali e religiose che da approcci scientifici. Le pratiche mediche del periodo spesso si basavano esclusivamente sull''idea di isolamento dei malati mentali dalla società e per questo, in molti casi, gli individui affetti da malattie mentali venivano spesso allontanati dalla comunità e rinchiusi in manicomi oppure ospedali psichiatrici, spesso in condizioni igieniche precarie e senza un'adeguata assistenza medica. Tali “centri di cura” erano per lo più strutture a carattere detentivo, in cui le persone erano segregate e venivano spesso sottoposte a metodi di trattamento discutibili.
Si tendeva infatti ad intervenire in caso di crisi violente con metodi fisici, anche molto invasivi e crudeli, come l'uso di camice di forza e la somministrazione di sostanze chimiche con pesantissimi effetti stordenti, come il bromuro.
Il personale sanitario delle strutture psichiatriche, spesso influenzato dai pregiudizi indicati all'inizio, si occupava dei pazienti con approcci poco scientifici; alcuni medici adottavano infatti l'elettroterapia, il trattamento con acqua fredda o calda, con il solo scopo di calmare con violenza le crisi più acute. Spesso, però, queste tipologie d'intervento, dato che non erano basate su nessuna prova di concreta efficacia, risultavano dannose per i pazienti.
La pratica peggiore di tutte era certamente la lobotomia (inventata da Gottlieb Burckhardt nel 1880), che consisteva nella recisione di parte delle connessioni nervose in arrivo e in partenza dalla corteccia cerebrale, in posizione frontale; l'operazione aveva il vantaggio di togliere ogni aggressività al paziente, ma la terribile conseguenza di renderlo un vegetale per il resto dei suoi giorni.ù
La pratica più diffusa però era l'elettroshock, una potentissima scarica elettrica che riduceva l'individuo alla totale incapacità di reagire per diverso tempo, oltre a procurargli gravi conseguenze fisiche come fratture alla spina dorsale, agli arti, danni muscolari dovuti alle terribili e incontrollate contrazioni che il corpo, anestetizzato, subiva durante la scarica.
La celebre poetessa milanese Alda Merini ricorda così la sua segregazione in manicomio:
“Ci svegliavano di buon’ora alle cinque del mattino e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che preludeva alla stanza degli elettroshock: così, ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato. Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano né sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare. I padiglioni erano ben divisi. Gli uomini stavano da una parte e le donne dall’altra. Le notti, per noi malati, erano particolarmente dolorose. Grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe. I farmaci che ci propinavano erano o troppo tenui o sbagliati, per cui pochissime di noi riuscivano a dormire. Di giorno non facevamo nulla e, se la sera si era tentati di rimanere alzati un altro po’, subito venivamo redarguiti aspramente e mandati a letto con le «fascette».
E questo accadeva all'Ospedale Gaetano Pini, dove la poetessa fu ricoverata pressoché ininterrottamente dal 1961 al 1972.
E sembrava di essere ancora nell'Ottocento.
Adja Fatou Dia, 2^BSU
Giulia Cecchettin era una studentessa di ingegneria biomedica di 22 anni, uccisa dall’ex ragazzo Filippo Turetta.
I due ragazzi furono dati per scomparsi per sette giorni, fino a quando il 18 novembre non è stato rinvenuto il corpo della ragazza, colpita a coltellate diverse volte, nei pressi del lago di Barcis a Pordenone.
Al momento del ritrovamento del corpo della ragazza di Turetta non si sapeva ancora nulla, ma ilgiorno successivo viene ritrovato anche lui dalle autorità tedesche presso Lipsia, in Germania, ancora vivo. Turetta, arrestato inizialmente dalle autorità tedesche, è stato successivamente portato in Italia a Venezia con un volo militare, trasferito poi nell’istituto penitenziario di Montorio. ed oggi rischia l’ergastolo per l’omicidio di Giulia ma anche per l’ipotesi della premeditazione, tesi che verrebbe sostenuta dalle ricerche e dall’acquisto fatto giorni prima di uno scotch resistente, rinvenuto identico nella zona dell’ultima aggressione della ragazza e per la presenza di alcuni coltelli rinvenuti nella sua auto. Giulia è stata uccisa pochi giorni prima dalla sua laurea, per troppa bontà, forse: in alcuni audio mandati alle amiche afferma infatti di non voler sparire dalla vita di Filippo per la paura che quest’ultimo possa fare gesti inconsulti. Lei stessa disse: «Io vorrei non vederlo più, vorrei sparire dalla sua vita ma non so come farlo. Mi sento in colpa, ho paura che possa farsi del male in qualche modo - continua poi -. Mi sento in una situazione in cui vorrei che sparisse, non vorrei nessun contatto con lui. Ma mi dice che è depresso, che non vuole mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto e che pensa solo a morire. Sono ricominciate le lezioni all'Università ma a lui non frega di iniziare nessun corso e dice che passerà le sue giornate a casa a studiare. Secondo me non me lo viene a dire per forza come ricatto però suona molto come se lo fosse. Lui dice che l'unica luce che vede nelle sue giornate sono i momenti in cui esce con me o quelli in cui io gli scrivo. Io vorrei non vederlo più, comincio a non sopportarlo più. Vorrei fortemente sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché mi sento in colpa ma ho troppa paura che possa farsi in qualche modo del male. Non credo che lo farebbe perché mi sembra che mi dica queste cose per costringermi a stargli appiccicato piuttosto che sia perché le possa fare realmente. Ma il fatto che nel caso possa essere colpa mia mi uccide come cosa e non so come comportarmi».
E lui l'ha uccisa davvero.
Giulia è stata la 105esima vittima di femminicidio in Italia solo quest’anno, con lei il conto sale a 106 donne ammazzate, di cui 48 uccise in ambito relazionale da parte di partner o ex, 13 per matricidio, e 40 per moventi incerti o ignoti. Il femminicidio è l’ultimo passo di un amore che probabilmente amore non poteva essere definito neppure nei suoi momenti migliori. È impensabile nel 2023 che a una ragazza che ha i nostri stessi sogni, le nostre stesse passioni o anche solo la nostra stessa età possa essere negata la vita perché un ragazzo non accetta che una storia possa finire. È vero che non tutti gli uomini molestano, sono violenti, possessivi, assassini ma adesso è un dato di fatto che noi ragazze abbiamo paura, paura di uscire da sole, paura di essere avvicinate, paura di conoscere qualche nuovo amico, perché non sappiamo più di chi possiamo fidarci.
Io ho 16 anni, non ho paura del buio ma ho paura di tornare a casa da sola,
ho 16 anni non ho paura del mostro sotto al letto ma ho paura degli uomini,
ho 16 anni non ho piu paura di cadere dalla bicicletta ma ho paura dell’amore,
ho paura di far battere il cuore a una persona che il cuore me lo possa spezzare alzando le mani e dicendomi che in realtà è stata colpa mia e quello schiaffo me lo meritavo.
Io ho 16 anni e non voglio più avere paura.
In memoria di tutte quelle donne che hanno amato purtroppo quelli che, a detta di tanti, erano “bravi ragazzi”, L'amore non fa male, l’amore non è violenza, l’amore non può uccidere.
Anna Ranxha, 3^AL
“A tredici anni dipingevo come Raffaello. Ho impiegato una vita intera per imparare a dipingere come un bambino”.
Snodo cruciale tra la tradizione ottocentesca e l'arte contemporanea, Picasso è stato senza dubbio uno degli artisti più influenti di sempre. Sin da ragazzino dà a tutti prova del suo grande talento, tanto che ad appena quattordici anni espose un dipinto alla mostra di Barcellona, che subito ottenne il consenso della critica.
Instancabile sperimentatore di tecniche e di linguaggi espressivi, Pablo dipinse, disegnò e scolpì incessantemente, e nonostante abbia attraversato vari generi e correnti, la sua arte rimane inconfondibile.
L’artista spagnolo e la sua straordinaria creatività fanno parte del programma di classe quinta superiore e quindi, in vista del così tanto temuto esame di maturità, non poteva capitare agli studenti del Liceo di Broni migliore occasione per conoscere meglio un così grande artista che andare a visitare una sua mostra.
Il 12 dicembre infatti le classi quinte, accompagnate dai docenti Ferrara, Ferraro, Schillani, Sergio e Vercesi, si sono recate presso Palazzo Saluzzo Paesana a Torino per ammirare le opere esposte, è svolgere attività laboratoriali di tecnica pittorica.
Queste hanno permesso agli studenti di immergersi a pieno nell’arte di Picasso, ricca di mille sfaccettature e suddivisa dagli storici dell’arte in particolari periodi: quello “blu”, inaugurato dopo la morte di un caro amico e caratterizzato dall'impiego di tonalità fredde, quello “rosa”, con il quale la tavolozza di Picasso cambia improvvisamente tono e accoglie tiepide gradazioni di rosa, ocra e arancio, e infine il “periodo africano”, nel corso del quale Picasso si interessa in modo approfondito alla scultura rituale africana e polinesiana.
L’uscita didattica inoltre ha permesso agli alunni di visitarr la città di Torino, nel tempo concesso per la pausa pranzo e nel primo pomeriggio, trascorso a passeggiare tra le celebro vie e piazze del capoluogo piemontese.
Martina Carbonella, 5^ASA
Donato Carrisi, nato a Martina Franca nel 1973, ora vive costantemente in viaggio tra Milano e Roma.
Dopo essersi laureato in giurisprudenza per il volere della sua famiglia,ha studiato criminologia e scienze del comportamento, i quali risulteranno fondamentali per i suoi futuri romanzi.
La scrittura, nata come passione, diventa presto il suo lavoro, che oggi lo vede dividersi tra l'attività di scrittore, regista di film e serie tv ed anche firma del Corriere della Sera.
I suoi libri hanno un enorme successo, e Carrisi può vantare di aver portato a termine un numero molto alto di best-seller ed anche la vittoria di un David di Donatello in veste di regista con La ragazza nella nebbia.
I suoi lavori sono tradotti in 30 lingue in tutto il mondo.
Il sette di Novembre di quest’anno, edito per Longanesi (sua storica casa editrice) è uscito il suo ultimo romanzo, ovvero L’educazione delle farfalle, e questo ha portato l’autore in giro per l’Italia per le presentazioni del nuovo lavoro e per incontrare i suoi lettori.
Tra le città toccate da Carrisi, c'è stata anche la nostra Broni, dove l’otto di novembre il celebre autore ha tenuto una presentazione durata circa un’ora e mezza.
La casa di legno brucia nel cuore della notte. Lingue di fuoco illuminano la vallata fra le montagne. Nel silenzio della neve che cade si sente solo il ruggito del fuoco. E quando la casa di legno crolla, restano soltanto i sussurri impauriti di chi è riuscito a fuggire in tempo. Ma qualcosa non è come dovrebbe essere. I conti non tornano. E il destino si rivela terribilmente crudele nei confronti di una madre: Serena. Se c’è una parola con cui Serena non avrebbe mai pensato di identificarsi è proprio la parola «madre».
Lei è lo «squalo biondo», una broker agguerrita e di successo nel mondo dell’alta finanza. Lei è padrona del suo destino, e nessuno è suo padrone. Ma dopo l’incendio allo chalet tutto cambia, e Serena inizia a precipitare nel peggiore dei sogni. E se l’istinto materno che lei ha sempre negato fosse più forte del fuoco, del destino, di qualsiasi cosa nell’universo?
E se davvero ci accorgessimo di amare profondamente qualcuno soltanto quando ci appare perduto per sempre?
Questo non è semplicemente l’ultimo capolavoro di Donato Carrisi. Perché Serena non è un personaggio come gli altri, e questa non è una storia come le altre. Questo è un viaggio inarrestabile alla scoperta degli angoli più oscuri del nostro cuore e delle nostre paure, al termine del quale il nostro modo di vedere il mondo, semplicemente, non sarà più lo stesso. Alla presentazione tenutasi al teatro Carbonetti di Broni, organizzata dal Comune e dalla Biblioteca di Broni, Donato Carrisi non si è lasciato sfuggire molto sulla struttura del libro o su ciò che accadrà tra quelle pagine. Le uniche notizie sicure che abbiamo avuto da lui riguardano le ambientazioni del romanzo, ovvero un paese inventato in Svizzera, meta turistica durante l’inverno, e Milano, la cui immagine è risultata molto veritiera per tutti i milanesi, nonostante avessero la sensazione di leggere di un’altra città rispetto a quella che conoscono. Si è poi parlato in modo un po' più generico del thriller; Carrisi ha spiegato quanto gli sia risultato utile nella vita studiare criminologia e scienze comportamentali per la descrizione di quelli che sono gli assassini dei suoi libri e ci ha inoltre fatto riflettere su come, tutti noi, ricordiamo sempre e solo gli assassini, quando si tratta di tragedie, e raramente i nomi delle vittime e che proprio per questo motivo lui ha deciso di concentrarsi sui “cattivi” delle sue storie. Ha anche espressamente messo in luce il suo totale disinteresse nei racconti horror, come troppo costruiti e pienamente falsi, sotto ogni aspetto. Con grandissima capacità, non solo ha raccontato di sé ad una teatro intero, ha anche interagito con il pubblico e tramite le sue spiccate qualità espositive ha fatto in modo che nessuno perdesse mai l’attenzione . Io ho avuto la netta sensazione che Donato Carrisi sia riuscito ad entrare nell’animo di tutti, per la sua capacità ma anche per la sua semplicità.
Sofia Zavattarelli, 5^AL
Fare sport fa molto bene alla nostra salute ma la società moderna ne fa sempre a meno, un po’ per lo sviluppo dell’automazione del trasporto motorizzato, un po' per la riduzione degli spazi e della sicurezza per pedoni e ciclisti, un po' per la limitazione delle aree giochi per bambini e un po' per molti altri motivi che inducono le persone alla pigrizia. Si aggiungono poi di frequente motivi personali quali la mancanza di tempo o impegni lavorativi e scolastici. Ma al nostro corpo serve fare movimento: perché?
Innanzitutto noi dobbiamo evitare la sedentarietà, a cui oggi siamo obbligati spesso sul posto di lavoro, perché essa può portare a malattie cardiovascolari, all'insorgenza del diabete e di tumori, dell'obesità ma anche ad alti rischi di osteoporosi, ansia e stress. Stare troppo fermi quindi influenza non solo la salute fisica ma anche quella mentale.
Inoltre l’attività fisica aiuta a regolarizzare il sonno, ti aiuta con l’autostima e a livello cerebrale aiuta il cervello a lavorare in modo da favorire la moltiplicazione dei neuroni e il rafforzamento delle connessioni neurali.
Sforziamoci, quindi, di usare le bici il più possibile per spostarci da un posto all’altro, di usare le scale al posto dell’ascensore, di fare delle passeggiate (anche in compagnia così la si sente di meno la fatica) e di dedicarci a più lavori domestici.
Ma gli studenti del Golgi quanta attività fanno?
Secondo le statistiche:
Il 72% dei ragazzi di prima fanno attività fisica, in seconda sono il 73.8%, in terza sono l' 83,9 %, in quarta sono il 60% e in quinta sono il 66%.
La maggior parte dei ragazzi della nostra scuola che non fanno attività fisica regolare hanno affermato che non fanno sport per mancanza di tempo e anche perché devono studiare, invece altri hanno detto che non hanno passaggio per andare agli allenamenti ma in pochi hanno detto che non hanno voglia, che non è necessario.
Possiamo dire che le statistiche sono nella media e che gli studenti del Golgi sono per fortuna abbastanza attivi .
Del resto, grazie ai nostri docenti di educazione fisica, abbiamo la possibilità di fare corsi di vela, di nuoto, esperienze di trekking, arrampicata (in palestra e non), di rafting, di poter usufruire di un gruppo sportivo studentesco pomeridiano... sono certa che anche i più pigri troveranno, tra tante proposte, qualcosa che li farà muovere!
Anisia Ioana Rogojina, 4^BL
Sabato 7 ottobre 2023 ci siamo svegliati con la terrificante notizia dell'inizio di una nuova guerra. Da quel momento televisioni e giornali non hanno fatto altro che parlare del conflitto scoppiato tra israeliani e palestinesi, il cui scontro è una realtà che va avanti più o meno intensamente dal 1948.
Il conflitto che oppone le forze armate israeliane e i fondamentalisti islamici palestinesi del movimento Hamas ha origini lontane nel tempo. Lo Stato d’Israele nacque nel 1948, ma già ai primi del Novecento pionieri ebrei avevano cominciato a trasferirsi in Terrasanta, allora parte dell’Impero ottomano (predecessore dell’attuale Turchia), per sfuggire alle frequenti persecuzioni antisemite di cui erano vittime, soprattutto in Europa orientale. A promuovere l’immigrazione era il movimento sionista, che voleva costituire uno Stato per gli ebrei nella terra da cui erano stati cacciati nell’antichità dai dominatori romani.
Dopo la Prima guerra mondiale, si tenne la Conferenza di Sanremo(1920) che smembrò i possedimenti dell’Impero ottomano e affidò la Palestina alla Gran Bretagna. Gli arabi che vivevano da quelle parti non la presero bene, si scatenarono moti di protesta contro gli inglesi e la comunità ebraica locale, negli anni divenuta sempre più numerosa.
Dopo la Seconda guerra mondiale i disordini in Terrasanta aumentarono e la Gran Bretagna decise di ritirarsi. Data la presenza nel paese di due comunità rivali, quella ebraica sionista e quella araba palestinese, le Nazioni Unite stabilirono di dividere il territorio in due Stati: uno ebraico e uno arabo. Ma quella decisione non fu mai attuata, perché gli arabi rifiutarono la spartizione. Non appena fu proclamato lo Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, gli eserciti dei Paesi arabi circostanti (Egitto, Giordania, Siria, Libano, Iraq) lo attaccarono per annientarlo, ma furono sconfitti. Israele occupava il 78% della Palestina; sostanzialmente tutto il territorio, tranne Cisgiordania e Gaza.
Seguirono trent’anni scanditi da conflitti continui, nel corso dei quali gli Stati arabi si rifiutarono di riconoscere Israele. Lo scontro più importante fu la Guerra dei Sei giorni. In appena sei giorni l’esercito israeliano ricacciò indietro le truppe di Egitto, Giordania, Siria ed occupò Gaza e Cisgiordania. La risposta palestinese fu un maggiore attivismo politico, infatti nacque L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) con l’intento di costruire uno Stato arabo al posto di Israele.
Vent’anni dopo, i tumulti dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania crebbero di intensità fino a diventare una sollevazione popolare contro l’occupazione israeliana. Questa fu la prima rivolta, detta in arabo Intifada, che durò diversi anni. Nel frattempo, l’Olp aveva moderato le sue posizioni, ma era sorta una nuova più estremista organizzazione palestinese di matrice musulmana, Hamas, decisa a distruggere Israele e a creare lo Stato Islamico di Palestina.
Attraverso una lunga trattativa tra l’Olp e Israele si giunse nel 1993 agli accordi di Oslo, firmati dal premier israeliano Rabin e dal leader palestinese Arafat, che prevedevano la nascita di uno Stato palestinese accanto quello ebraico: venne creata così l’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ma il successivo processo di pace, sabotato dagli estremisti di entrambe le parti, si risolse in un fallimento e nel 2000 scoppiò la seconda Intifada, con vasto uso di attentati suicidi da parte palestinese.
Nel 2005 Israele decise di ritirarsi dalla striscia di Gaza, ma bloccò le frontiere e gli accessi via mare e dal cielo, creando quindi una terra il cui sviluppo era ed è impossibile. Il controllo di quella piccola porzione di territorio ai confini con l’Egitto venne assunta da Hamas. Da allora si sono spesso ripetuti conflitti sanguinosi. I miliziani di Hamas, aiutati dall’Iran, lanciavano razzi per colpire il territorio israeliano; le forze dello Stato ebraico rispondevano con bombardamenti massici e incursioni armate nella striscia.
Il 7 ottobre è però avvenuto un fatto che non si è mai verificato prima: i terroristi di Hamas, agendo di sorpresa, sono riusciti a sfondare le barriere costruite intorno a Gaza e hanno compiuto stragi di civili in Israele, che ha reagito dichiarando guerra al movimento islamico. Il risultato è lo scontro terribile a cui stiamo assistendo in questi giorni. Da poco è stata dichiarata una tregua unanitaria, sulla base di un reciproco scambio di ostaggi.
Dobbiamo fare ogni sforzo perché essa sia il primo passo verso la pace.
Carolina Moro, 4AL
Cartesio fu un grande matematico e filosofo francese vissuto principalmente nel XVII secolo, un giorno si pose un dubbio esistenziale: come si può avere la certezza che tutto sia effettivamente come appare? Possiamo fidarci dei nostri sensi?
Lui si basava sulla convinzione che i sensi potessero essere ingannati e quindi distinse la realtà da noi percepita in due “categorie”:
Realtà fenomenica: cioè la realtà sensibile, come appare ai sensi, quindi teoricamente illusoria e inaffidabile.
Realtà noumenica: cioè la realtà degli eventi oggettivi e della verità assoluta che non può essere basata solo sui sensi.
Una volta fatta questa distinzione voleva capire se questi due tipi di realtà potessero coincidere, cioè voleva essere certo che tutto ciò che noi percepiamo corrisponda effettivamente alla realtà. A questo punto comincia il suo dubitare, perché secondo lui bisogna dubitare di tutto ciò che non è indiscutibile, per lui si può dubitare di tutto e in modo estremo. Da qui nasce il dubbio metodi
co (cioè applicato a tutto) e iperbolico (cioè portato all’estremo). Bisognava partire da qualcosa di indubitabile, ma cosa? Da grande matematico lui avrebbe detto la matematica no? No, perché iperbolicamente potrebbe esistere per assurdo un genio maligno con superpoteri che controlla la nostra mente e ci fa credere che la matematica funzioni solo per ingannarci o per prendersi gioco di noi. Quindi l’unica certezza indiscutibile è che io dubitando di tutto sto effettivamente dubitando di qualcosa, quindi pensando, al di là del fatto che la materia di sospetto sia reale o meno. Di conseguenza deduco che esiste una “sostanza pensante” o anima, chiamata da Cartesio “res cogitans” quindi qualcosa di pensante contrapposto alla “res extensa”, quindi tutto ciò che è materiale compreso il nostro corpo. Da qui la celebre frase “Cogito, ergo sum”: penso, dunque sono, si può estendere a: “Dubito, ergo cogito, ergo sum; res cogitans”: dubito, quindi penso, dunque sono sostanza pensante (anima).
Quindi siamo giunti alla certezza di un io pensante presente nell’universo, adesso dobbiamo dimostrare che la realtà noumenica corrisponda a quella fenomenica. Cartesio, istruito dai gesuiti, prova ad eliminare il dubbio cercando un Dio buono e benevolo che garantisca conoscenza e la realtà. Prova a dimostrarne l’esistenza tramite le idee (per lui le idee sono il contenuto della mente umana), che divide in tre tipi:
Idee avventizie: cioè le idee che derivano dall’esterno e dalla realtà che ci circonda, quindi qualsiasi cosa di cui empiricamente abbiamo fatto esperienza.
Idee fattizie: cioè le idee che sono il prodotto della nostra immaginazione ma che comunque derivano tutte dalle idee avventizie, per il filosofo la fantasia è figlia dell’esperienza.
Idee innate: cioè le idee che non derivano dall’esperienza, come l’idea di Dio e della sua perfezione, di cui noi non possiamo fare esperienza. In più gli esseri umani in quanto esseri imperfetti, non possono creare qualcosa di perfetto, poiché la non-perfezione non può creare la perfezione.
Detto questo, Cartesio dimostra l’esistenza di Dio e quindi ammesso che questo sia benevolo e benigno fungerebbe da garante della conoscenza e quindi non permetterebbe l’esistenza di un genio maligno che inganna i sensi ecc.
In conclusione, Cartesio dimostra la realtà di tutto tramite l’esistenza di Dio e di conseguenza si prova che ci si può fidare della matematica poichè l’esistenza di questa figura annienta la possibilità di un genio maligno.
Francesco Buttafava, 2^BSU